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La Suprema Corte ribadisce: non vi è luogo a collazione ove difetti un relictum

Con la recentissima ordinanza n. 509/2021 della Cassazione Civile, Sezione 6, pubblicata il 14/01/2021, la Suprema Corte ha inteso ribadire l’insegnamento secondo cui “la collazione presuppone l’esistenza di una comunione ereditaria e, quindi, di un asse da dividere, mentre, se l’asse è stato esaurito con donazioni o con legati, o con le une e gli altri insieme, sicchè viene a mancare un relictum da dividere, non vi è luogo a collazione, salvo l’esito dell’eventuale azione di riduzione (in termini, più di recente, Cass. n. 23529/2017 e Cass. n. 13660/2017, non massimate sul punto)”.

La Suprema Corte, in questo recentissimo arresto, ha dato atto che questo orientamento è criticato da “alcuni studiosi che invece sostengono la tesi del riconoscimento della collazione pur in mancanza di beni relitti”, ma ha inteso assicurare continuità all’orientamento prevalente, non avendo ravvisato nell’avversa tesi “argomenti tali da indurre a mutare l’ormai costante giurisprudenza di questa Corte”.

Peraltro, la tesi contraria è sostenuta dalla più autorevole dottrina con considerazioni che, a chi scrive, paiono senz’altro preferibili: “l’obbligo alla collazione sorge automaticamente a seguito della successione e diviene operativo a seguito dell’accettazione dell’eredità, con la conseguenza che i beni donati concorrono alla formazione della massa ereditaria, la quale deve dividersi tra i soggetti tenuti alla collazione. In proposito non ha rilevanza l’assenza di un relictum ereditario da dividere, ben potendo una comunione derivare soltanto dalla collazione delle donazioni” (cfr. CAPOZZI, Successioni e donazioni, Tomo II, Giuffrè, 2002, pagg. 726-727).

Detta tesi appare preferibile con la ratio della collazione che è quella, costantemente richiamata dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui “il fondamento dell'istituto della collazione sta, nella presunzione che il de cuius, nell'ipotesi in cui abbia fatto in vita donazione ad alcuni dei propri discendenti, non abbia, con ciò, inteso alterare il trattamento successorio spettante a tutti” (così Cass. Civ., sez. II, 30.05.2017, n. 13660).

La donazione in vita ai figli è costantemente considerata da dottrina e giurisprudenza quale una mera anticipazione sulla successione: il bene donato deve essere considerato come un acconto (o, esaurendo la quota successoria del donatario) lo stesso saldo sulla quota medesima.

Se è così, non si riesce a comprendere perché questo meccanismo di tutela del trattamento successorio che la legge riserva ai discendenti debba saltare laddove, con atti inter vivos di carattere liberale e/o con legati, il de cuius disponga dell’intero patrimonio.

Non è dato comprendere, pertanto, come quella che abbiamo visto essere definita una vera e propria presunzione che le donazioni in vita fanno parte del (e, proprio per l’effetto della collazione, non possono alterare il) trattamento successorio che il de cuius ha inteso riservare ai propri discendenti possa svanire di fronte alla circostanza che il de cuius, perseguendo proprio il fine di snaturare il trattamento successorio garantito ai discendenti dall’ordinamento, abbia disposto del proprio intero asse, esaurendolo con dette donazioni o con legati.

Salvo poi operare nuovamente, ma nei ben più ristretti limiti garantiti dalla quota necessaria, allorché venga esperita fruttuosamente l’azione di riduzione che, come noto, comporta l’acquisto della qualità di erede in capo al legittimario pretermesso, instaurando una comunione ereditaria tra quest’ultimo ed il soggetto (i soggetti) chiamati all’eredità dal de cuius.







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